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Proposta di lettura – “Aristocrazia 2.0”, l’ultimo libro di Roger Abravanel

 

Di Alessandro Artini - Presidente ANP Toscana

 

Dopo l’apertura della crisi di governo, il dibattito parlamentare è stato decisamente di basso livello. Ma cosa ci si poteva aspettare, se Galli della Loggia scrive che i parlamentari sono in grandissima parte sconosciuti ai propri elettori, spesso semianalfabeti e vanitosi, eletti unicamente grazie alle loro relazioni personali con gli oligarchi che gestiscono i partiti?

Dunque, il tema della formazione e selezione della classe dirigente è all’ordine del giorno. Ma esso, se risulta ben visibile nello scenario politico, non per questo non coinvolge altri ambiti. In realtà, la mancanza o inadeguatezza di una classe dirigente è un problema che pervade l’intera società. Roger Abravanel lo affronta nel suo ultimo lavoro, Aristocrazia 2.0. Una nuova élite per salvare l’Italia, per i tipi della casa editrice Solferino.

 

Il libro, a prima vista, potrebbe sembrare un saggio di economia e management, anche per la biografia dell’autore, direttore emerito di McKinsey e consigliere di numerose aziende, ma in realtà il suo pensiero travalica quell’ambito e lo fa con competenza e passione, percorrendo trasversalmente vari saperi, tra cui quello storico, sociologico e antropologico. Più che un libro, quello di Abravanel, è uno specchio dove noi Italiani possiamo raffigurarci. E il bilancio non è positivo, tanti sono gli aspetti (drammaticamente!) insoddisfacenti della nostra vita civile. L’autore non fa sconti e la situazione, a prima vista, pare irredimibile, anche se poi l’orizzonte sembra schiudersi su una nuova generazione di giovani, una aristocrazia 2.0, che si è formata presso buone università.

 

Fin dalle prime pagine, il testo scorre con un linguaggio semplice e coinvolgente, mostrando il film delle recenti vicende del nostro Paese, cioè la nostra storia contemporanea. Esso ci racconta di un’economia ingessata e incapace di crescere, ormai dal ‘92, l’anno drammatico di svalutazione della lira e d’inizio della recessione. È un’economia radicata su un sistema industriale di piccole e medie imprese che, proprio per la taglia ridotta, sono state incapaci di promuovere ricerca e sviluppo e di valorizzare il capitale umano disponibile (pochi i laureati assunti…). Un sistema inadatto, oggi, ad affrontare la crisi causata dalla pandemia. Il nanismo, inoltre, non riguarda solo le aziende, ma anche gli studi professionali e i servizi, penalizzando le singole persone i cui stipendi, in Italia, sono più bassi, e l’intero sistema delle professioni. Tutto ciò, nonostante si ripeta continuamente “la bufala” che i lavoratori autonomi sono la forza del Paese.

La bassa crescita e il debito pubblico insostenibile, inoltre, rappresentano una combinazione che già conosciamo. È lo scenario dell’Argentina, che si profila di fronte ai nostri occhi: una spirale di declino economico e inaffidabilità finanziaria, con l’aggiunta di una regressione sociale, causata dall’aumento delle disuguaglianze, e culturale, conseguente al numero sempre più ridotto di laureati e alla perdita di prestigio delle università. Il tracollo e i default, susseguitisi in quel paese, un tempo ricco, forse possono essere evitati, perché in Italia c’è ancora un tessuto di imprese innovative e competitive, che lascia ben sperare, ma la formazione del capitale umano continua a vivere una condizione di impasse. La cultura meritocratica non decolla e il nostro Paese ancora non è entrato a pieno titolo nel mondo dell’economia della conoscenza. Diversamente da ciò che accade nelle nazioni più evolute, in Italia, ad esempio, le scuole sono valutate solo parzialmente dall’Invalsi, l’Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo, a causa della fiera opposizione dei sindacati dei docenti (e di alcune forze politiche), mentre nelle università si pone in discussione, per ragioni ideali, ma anche di convenienza, il ruolo dell’Anvur, l’Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca. “Merito”, da noi, significa laurearsi in una università qualsiasi, magari vicino a casa, per poi cercare il posto fisso, anziché puntare su una formazione di alta qualità, fatta di scuole e università di eccellenza e di esperienze extracurricolari speciali e arricchenti. Fra l’altro, il numero dei laureati è basso (20% circa, contro il 44% della media dei paesi OCSE) e non accenna a crescere.

 

In Italia si è convinti che la valutazione stessa sia una fregatura, dove i vincitori, i soliti predestinati, si mimetizzano sotto una coltre di giudizi apparentemente oggettivi, secondo quanto spiega il filosofo americano Sandel, che addirittura attribuisce (ed è paradossale…) la genesi del populismo alla meritocrazia. Abravanel punta il suo sguardo analitico sulla fiducia, che è un elemento centrale nelle relazioni umane. Gli Italiani, infatti, non si fidano gli uni degli altri e vedono il successo altrui come conseguenza di furberie e sotterfugi. L’opinione comune (questo è anche il nostro modello culturale antropologico) suggerisce che la competizione leale, all’insegna della correttezza, non esista. Di conseguenza, spira un vento antimeritocratico, che costituisce, negativamente, un tratto essenziale del nostro modo di pensare. Un disvalore. Purtroppo le ricerche sociologiche di Edward Banfield, nella metà degli anni Cinquanta, o quelle di  Robert Putnam, negli anni Settanta e Ottanta, attestano, in maniera documentata, che una parte consistente della popolazione italiana è mossa soprattutto dalla ricerca del vantaggio particolaristico e pone in essere quei comportamenti che sono stati definiti come “familismo amorale”. Ma la fiducia tra persone, caratterizzata dal rispetto delle regole e dai comportamenti improntati al criterio della reciprocità, è il principale ingrediente del vivere civile. Essa genera, infatti, il capitale sociale, cioè il collante che mantiene coesa la società.

Senza fiducia reciproca, è difficile coltivare il valore della fairness, cioè della competizione leale, finalizzata al miglioramento collettivo.

 

Il saggio, poi, contiene, nella parte centrale, una disamina dello sviluppo economico di alcune nazioni nella attuale fase di globalizzazione. Abravanel conosce, per esperienza diretta, varie realtà internazionali e le descrive in maniera vivida, individuandone in modo nitido i trend emergenti. Il suo è lo sguardo di chi, per competenza professionale, è abituato a indicare le strategie economiche più efficaci e lungimiranti. Sono storie avvincenti, quelle che vengono raccontate, senza toni giudicanti, bensì con spirito di servizio. Si tratta di esperienze positive e negative, dalle quali si ricavano orientamenti riflessivi aperti, anche se la narrazione delle scelte intraprese e della sequenza di eventi non lascia dubbi circa le conclusioni.

Abravanel passa con naturalezza dalla narrazione di storie imprenditoriali e manageriali del mondo asiatico (Corea del Sud, Cina, Giappone), per attraversare l’America e poi tornare in Europa, approdando alle vicende italiane. I casi nostrani di miopia strategica sono numerosi. Al fallimento delle imprese, è seguita la cessione della proprietà, spesso in mani straniere. Generalmente si è preferito passare l’azienda ai figli, i quali non sempre sono stati all’altezza dei genitori. È accaduto, così, che il rifiuto di manager esperti a vantaggio di una successione familiare (e familistica) abbia prodotto una logica anti meritocratica, che si è dimostrata fallimentare (l’elenco delle aziende vendute, del settore moda, alimentare, elettronico, ecc. è davvero lungo). Lo slogan “piccolo è bello” (anziché “Big is beautiful”), infine, è emblematico di una cultura aziendale deleteria che, seppur involontariamente, ha favorito il declino economico.

 

Rimediare a questa situazione non è facile, proprio perché essa non deriva da fatti contingenti, ma si pone in un contesto strutturale antimeritocratico, di rifiuto della competizione e di condanna pregiudiziale dell’ambizione ad eccellere. Abravanel pone comunque tre obiettivi. Il primo: creare uno Stato magnete (anziché elargitore di sussidi), cioè attrattore di capitali smart, ad alto contenuto di conoscenza; il secondo: riformare le università, che si sono chiamate fuori dalla competizione intellettuale internazionale; il terzo: costruire forme di check and balances, che circoscrivano il potere giuridico nell’alveo che dovrebbe essergli proprio. Quest’ultimo obiettivo potrebbe apparire di natura politica e, certamente in senso lato lo è, ma, Abravanel, ancora una volta, punta lo sguardo verso le dimensioni di fondo della vita associata, perché la società civile non può reggersi senza una giustizia funzionante.

 

Abravanel è un uomo sincero, almeno quanto le sue critiche, indirizzate ai sindacati, ma anche a Confindustria, sono scomode. Vale la pena di chiedersi quale sia stata la pulsione interiore che ha animato la sua potente scrittura. Certamente sbagliamo, ma, senza tema di apparire retorici, vorremmo dire che quella pulsione è data da una sorta di patriottismo. Egli è un uomo che, per seguire la scia del pensiero di Roland Barthes, soffre per l’oggetto del suo discorso amoroso, dacché quest’ultimo, cioè l’Italia, è al di sotto di ogni aspettativa. Con più precisione, forse, potremmo dire che il discorso di Abravanel sia ispirato a una sorta di patriottismo culturale, che, se da un lato denuncia i lati oscuri di un paese familista, dall’altro mostra, con un sentimento di speranza, l’affermazione di quella nuova élite di giovani, che fa della formazione il carattere distintivo. Il riscatto del nostro Paese guarda ad essa.

 

(13 febbraio 2021)

 

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