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Alcune riflessioni sulla scuola

di Alessandro Artini

A fine anno, è tempo di bilanci. Quelli politici non mi competono, ma in veste di dirigente scolastico ho qualche titolo per tracciare un consuntivo scolastico.
Il 2016 è stato un anno di cambiamenti, che forse non hanno avuto la lungimiranza strategica di incidere sulla sostanza profonda della vita scolastica, ma che almeno hanno mosso le acque di un mondo profondamente insoddisfatto. Tutto ha avuto origine dalla Legge 107 che, emanata nel 2015, ha riverberato alcuni dei principali effetti nel 2016. Nel corso dell’anno, infatti, si sono avute alcune centinaia di migliaia di docenti precari immessi in ruolo, la costituzione di un organico potenziato affidato alle singole scuole (docenti disponibili per supplenze o per altre attività), il varo di un piano dell’offerta formativa di natura triennale preceduto dalle linee di indirizzo dettate dal dirigente, una diversa procedura di immissione in ruolo meno ritualistica di quella tradizionale, il bonus di 500 € per la formazione e l’aggiornamento personali, la cosiddetta chiamata diretta dei docenti da parte delle scuole, il bonus che il dirigente ha attribuito ai docenti meritevoli, il potenziamento dell'alternanza scuola/lavoro e altro ancora.
L’elenco potrebbe essere più lungo, perché la 107 ha comportato un corteo di decreti attuativi ancora non esaurito. Si è trattato, dunque, di un anno di cambiamenti, ma resta da capire in che misura essi siano stati benefici.

Circa le immissioni in ruolo, esse hanno contentato una platea vastissima di precari, molti dei quali scontavano anni di spostamenti da una scuola all’altra, in balia a un meccanismo impersonale, quello delle graduatorie, che poteva determinare cambiamenti inattesi per un punto in più o in meno. Certamente il precariato a vita non rappresenta un orizzonte professionale ed esistenziale auspicabile e forse l’immissione in ruolo ha emendato molte situazioni personali inique. D’altro canto è bene rilevare che una parte cospicua di precari, nonostante il possesso formale dei titoli, appariva visibilmente inadatta al ruolo. Alcuni di loro, se facenti parte dell’organico potenziato (cioè privi di una specifica cattedra), sono stati posti “in affiancamento” a docenti collaudati, che in molti casi hanno insegnato loro i rudimenti dell’arte. In realtà, più che affiancare, i neoimmessi sono stati affiancati da docenti esperti. Altri piombati in classe da regioni lontane, hanno fatto ciò che era possibile, se armati di buona volontà. Hanno fatto “danni” (in senso educativo), se poco sensibili ai doveri. In alcuni casi, il fatto di sentirsi “deportati” dalle terre originarie ha giustificato quegli atteggiamenti che solo in termini eufemistici potremmo definire di scarsa dedizione professionale. In realtà spesso si è trattato di fenomeni di assenteismo, tramite un uso reiterato di certificazioni mediche.

La sanatoria operata dal governo Renzi, forse inevitabile a causa della sentenza della Corte Europea di Giustizia che ha punito l’Italia per gli eccessivi contratti a tempo determinato, ha lasciato molte ombre.
Un fatto è certo, tuttora molti neodocenti puntano sulle supplenze per l’acquisizione del punteggio necessario ad acquisire i diritti di anzianità che recentemente hanno prodotto le immissioni in ruolo ope legis. Se si voleva scoraggiare il precariato, questo esito non è stato raggiunto.

Più interessante, dal mio punto di vista, il resto delle riforme che hanno avuto ad oggetto le modalità di governo della scuola.

In tutte le organizzazioni mal funzionanti si procede generalmente al cambio della dirigenza. Ciò vale particolarmente nel mondo privato, ma nei paesi in cui è possibile, ciò vale anche nella dimensione pubblica. Questo mi pare accettabile anche per la scuola italiana, mettendo in gioco il ruolo dei dirigenti. Le imminenti valutazioni da parte di alcuni nuclei ispettivi rappresentano proprio uno degli esiti di questo disegno, che ha riconosciuto la centralità dei dirigenti nella vita delle scuole. Tuttavia questa centralità non poteva prescindere dall’attribuzione di alcuni poteri agli stessi. La valutazione dei dirigenti sarebbe vacua, se essi non hanno alcun potere decisionale. Senza responsabilità di scelta non ha senso valutare. Da questo punto di vista, la stesura delle linee di indirizzo, l’attribuzione meritocratica del bonus ai docenti e la “chiamata diretta” sono certamente espressione dei poteri che definiscono la responsabilità del dirigente.

Lo scandalo che tutto ciò ha provocato forse deriva da una scarsa conoscenza dei sistemi scolastici europei, dove i dirigenti dispongono di ben altri poteri rispetto a quelli appena citati, che rappresentano una condizione minimale. In quasi tutti i sistemi scolastici europei i dirigenti godono di una sfera di governo più ampia, particolarmente nella gestione del personale, che spesso si espande fino all’assunzione e al licenziamento del personale. A fronte delle proteste sindacali che in Italia si sono scatenate in relazione ai modesti poteri sopra menzionati, ci sarebbe da chiedersi se in paesi come l’Inghilterra, la Germania, quelli scandinavi e altri ancora viga un sistema scolastico democratico oppure no. Ma è del tutto evidente che la domanda è insensata.

Torniamo, quindi, alla questione della strategia di riforma e cioè alla centralità dei ruoli dirigenziali. Ammesso che il disegno della Legge 107 abbia voluto costruire una tale centralità per l’innesco di processi virtuosi di cambiamento, essa ha senso oppure no?

A questo riguardo è opportuno far presente che le scuole sono organizzazioni dove si presenta un difficile equilibrio di interessi, spesso contrastanti. Gli interessi dei singoli docenti circa la sede lavorativa, gli orari di servizio, le ferie, ecc. possono differire da quelli degli alunni oppure delle altre persone che svolgono ruoli di pulizia, di assistenza o di amministrazione nella scuola stessa. Gli interessi di tutti coloro che lavorano, a loro volta, possono divergere da quelli degli alunni, i cui bisogni di apprendimento potrebbero suggerire orari e modalità di lezione diversi da quelle auspicabili dal singolo lavoratore. Eppure gli interessi degli alunni dovrebbero sovrastare quelli dei lavoratori, poiché questi ultimi svolgono un servizio proprio per i giovani. Credo si possa affermare che l’interesse generale dell’istituzione scolastica si identifichi con l’attività di apprendimento-insegnamento svolta nella scuola. Se le cose stanno in questi termini, chi, ad eccezione della dirigenza scolastica, può interpretare un tale interesse? Aldilà della maggiore o minore disponibilità e onestà personali, credo che solo la funzione dirigenziale possa corrispondere, se correttamente implementata, all’interesse dell’istituzione stessa. Mentre il singolo docente potrebbe scegliere di avere un orario che escluda le prime ore mattutine (perché deve accompagnare i figli a scuola …), il dirigente non dovrebbe avere altro interesse che quello di definire un orario equilibrato tra le varie discipline, per favorire gli apprendimenti dei giovani. Solo il dirigente, a mio avviso, può avere a cuore una tale tutela. In tal senso il suo ruolo riveste correttamente una centralità.

Sembra che il nuovo ministro abbia avviato un processo di revisione della Buona Scuola renziana (si veda l’articolo di ieri di Stella sul Corriere). Ebbene, se ciò accade, si tenga presente che la scuola restituita ai tavoli di concertazione corre il rischio di dimenticare la ragione ultima per cui essa è nata e cioè il servizio agli alunni. Unitamente alla Buona Scuola, l’eventuale messa in discussione dei ruoli dirigenziali non avrà altro effetto che quello di soffocare gli interessi generali e favorire il restauro di quelli particolaristici. Se è corretto ascoltare la voce degli utenti, non si dimentichi che il principale ruolo di ascolto è quello del dirigente. Non si dimentichi, infine, che nella scuola italiana l’ultima voce ad essere ascoltata, quando la si ascolta, è quella degli alunni e dei genitori utenti.

Firenze, li 31 dicembre 2016

Alessandro Artini - (Presidente ANP Toscana)

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